Mi rendo conto di parlare di un argomento del quale in passato si sapeva pochissimo anche per scarse conoscenze scientifiche sull’argomento, mentre oggi se ne parla in modo più approfondito grazie soprattutto all’entrata nel mondo subacqueo dell’immersione sportiva con miscele.
Non bisogna dimenticare neppure l’alto contributo di vite umane che è stato pagato prima di arrivare a comprendere la pericolosità dell’ossigeno respirato a pressioni parziali elevate.

Vi racconterò solo ed esclusivamente la mia esperienza diretta e le cause che secondo me hanno contribuito a scatenare il problema.

PALAU ARCIPELAGO DELLA MADDALENA ANNO 1984.

Allora avevo 26 anni e praticavo già immersioni profonde, ma il desiderio era quello di esplorare il mare a quote più elevate, 80-85-90 metri e la passione e il fascino fecero il resto.
Per immergermi utilizzavo un tribo 10+10+6 con erogatori separati e quel giorno decisi di esplorare uno scoglio di circa 9 metri di altezza che lo scandaglio mi segnò come isolato in mezzo a un deserto di sabbia a –92 metri.

Assistenti in superficie mio padre e mio fratello, segnaliamo il punto con il pedagno che si affossa leggermente a causa di una corrente di maestrale.
Mi preparo, muta umida due pezzi da 7 mm., sottomuta, profondimetro, decompressimetro con polmone, niente zavorra, zero gav e gli immancabili due sacchetti di plastica robusta assicurati con due elastici nel braccio destro.
I sacchetti non mi servivano per fare la spesa ma per equilibrarmi quando navigavo sul fondo e in fase di risalita per arrivare fino a una certa quota come su un ascensore senza faticare e quindi accumulando meno azoto.
Questa tecnica veniva utilizzata già da mio padre e mio zio quando praticavano a livello dilettantistico la pesca del “corallo rubrum” nelle Bocche di Bonifacio e da quasi tutti i corallari che negli anni 60 operavano in quella zona.

Mi tuffo, inizio la discesa velocissimo senza perdere di vista il filo del pedagno, dopo qualche minuto sono quasi sul fondo e inizio a gonfiare uno dei sacchetti per rallentare la discesa e stabilizzarmi.
Perlustro lo scoglio che nonostante la buona visibilità non vedo completamente, le dimensioni sono notevoli, il paesaggio lunare con grandi crateri è affascinante e scorgo qualche aragosta qua e là, trascorrono circa 7 minuti e mi avventuro all’interno di in tanone immenso, accendo la pila e mi imbatto in un paio di mustele enormi e una cernia di fondale, decido di riuscire e indietreggiando mi accorgo che alla mia destra in un anfratto c’è un bel boccone di dimensioni ragguardevoli, lo prendo e spostandomi sento un po di freddo, mi rendo conto che la lucidità non è ai massimi livelli, l’azoto si fa sentire, ma sono ancora su standard molto buoni, distinguo tutto abbastanza bene e i movimenti sono sicuri e precisi.
Sto per uscire completamente dalla tana e qui durante lo sforzo accentuato anche dal peso delle bombole e dalla lunga permanenza sul fondo, accade una delle cose più terribili che abbia mai provato, l’intossicazione da ossigeno respirato a una pressione parziale elevata di 2,14 ATA.

Black Out totale, non vedo più, ciò che mi si presenta davanti agli occhi è il nulla più totale e migliaia di puntini mi vengono incontro.
Credo di non aver perso del tutto la lucidità in quanto anche dopo ricordai quasi tutto di quei terribili momenti.
Simultaneamente il mio corpo inizia a scuotersi come percorso da una scossa, sono le convulsioni.
Durante questo stato terrificante e grazie a quel barlume di istinto di sopravvivenza che mi rimane, continuo a respirare in modo scoordinato e affannoso con l’erogatore fra i denti, gonfio il sacchetto e parto come un missile verso la superficie accompagnato ancora da tremori sulla faccia, braccia ecc.., il mio stato generale è ancora di Black Out, la mia debolezza è ai massimi livelli e mi sento morire, ormai è la fine.

Mentre prendo quota (allora la sensazione era di sprofondare) nel totale turbinio di bolle comincia a schiarirsi la vista e intravedo un po’ di luce, la situazione è critica ma istintivamente capisco che devo rallentare la risalita, in caso contrario la pallonata con embolia e conseguente morte istantanea sono assicurate.

Mi sento debilitato ma con uno sforzo notevole riesco a sgonfiare il sacchetto e la mia ascesa si arresta immediatamente, cerco di pinnare per tenermi in quota ma sono troppo debole, le gambe è come non ci fossero e sto ricascando giù, rigonfio leggermente il sacchetto e mi riequilibro riprendendo la risalita.
Non so a che quota sto e controllo profondimetro e manometro ma ancora la vista non è perfetta, rigonfio parzialmente il sacchetto e mi blocco, guardo verso la superficie ma non vedo ancora il sole, riguardo il profondimetro, la vista sta migliorando sono a –50 metri.

Riprendo la risalita, i tremori si sono molto attenuati ma la stanchezza è infinita, ho 60 bar nel bibo, il consumo si è parecchio accentuato e 270 nel mono da 6 litri che non ho ancora utilizzato.
Intravedo la cima con il peso per la deco che mi hanno calato dalla barca, la afferro sono risollevato e ho una voglia pazza di ritornare in superfice ma la ragione mi dice che non devo farlo, che soffrirò ma devo decomprimere.
Sono stati 90 minuti interminabili accompagnati da un malessere generale.

Per i due giorni successivi ho sofferto di emicrania e sono rimasto a terra.
Allora nessuno si spiegò con precisione l’accaduto e seppi solo dopo due anni ciò che si era verificato.

Non sopportavo il fatto di non riuscire a darmi una spiegazione e mi sentivo bloccato e impaurito così dopo quattro giorni dall’accaduto modificai l’attrezzatura sistemando dei galleggianti incomprimibili (a sgancio rapido da eliminare nelle ultime fasi di risalita e deco) all’altezza della parte bassa del bibombola per attenuare la negatività sul fondo e migliorare l’assetto.
Ridussi anche lo sforzo di ispirazione e espirazione agendo sugli erogatori e ripresi subito a immergermi.
Ripetei l'immersione sullo stesso sito e con la medesima attrezzatura, anḍ tutto perfettamente e nonostante non avessi superato del tutto lo shock per quella terribile avventura, mi resi conto che stavo molto meglio soprattutto per l'assetto, quei galleggianti furo un toccasana.

In seguito con la maturità e l’esperienza migliorai le mie “performance” cercando di non lasciare niente al caso.

CONCLUSIONE:

Evidentemente non era arrivata la mia ora, sono stato miracolato ma è anche vero che l’istinto di sopravvivenza se supportato dalla fortuna e dalla capacità di saper sfruttare al meglio i mezzi a disposizione e le proprie conoscenze ti possono salvare.
Questa esperienza terribile mi ha insegnato moltissimo soprattutto quando seppi che cosa mi colpì realmente e farne tesoro fu il mio obiettivo per migliorare.
Le immersioni ad aria profonde con puntate a 115-118 metri e permanenze limitate sul fondo le pratico ancora oggi, ma credo che l’allenamento, la predisposizione, l’esperienza e uno stato psicofisico eccellente giochino un ruolo fondamentale in questa nicchia della subacquea “ESTREMA”.
Dimenticavo, già da anni utilizzo un gav con doppio sacco per le immersioni profonde ad aria e in trimix e le gloriose buste sono andate in pensione.
Buone immersioni sia a 20 che a 100 metri e oltre, ma in questo ultimo caso meglio se con le miscele e sempre con la dovuta “ESPERIENZA E PREPARAZIONE”.